di Ugo Montevecchi
Come era bello il mondo al tempo delle tribù! A mio giudizio è stata quella per l’uomo l’epoca più serena e felice. Non importa a quale tipo di tribù si faccia riferimento, ci possiamo immaginare gruppi di umani persi nel folto della giungla equatoriale, isolati fra alte montagne, accampati fra le erbe delle immense praterie, arrampicati su palafitte lungo le rive di un grande lago, tra le palme di un’isola dalle sabbie bianchissime o coperti di pellicce al limite dei ghiacci perenni.
Tutti a quei tempi godevano ampiamente di quello che a noi manca drammaticamente e cioè gli spazi infiniti e condizioni di vita in armonia con la natura. Uomini semplici organizzati in un sistema semplice. Ogni singolo nel proprio interesse lavorava per la tribù. Tutto si svolgeva in comune e la specializzazione dei ruoli all’interno del clan era funzionale all’interesse della collettività. Ognuno svolgeva mansioni diverse ma con uguale dignità. Solo uno, il capo, era al di sopra di tutti, ma era sempre un capo eletto per il suo indiscusso valore quindi scelto nell’interesse della collettività.
Il privilegio del comando però comportava la pesante contropartita di gravi responsabilità quali ad esempio il dover prendere le decisioni in caso di contrasti fino al disporre, se necessario, l’allontanamento dal clan di elementi che si rivelassero dannosi per la serenità e l’armonia del gruppo. Situazioni estreme, per fortuna. Talvolta poteva accadere pure che qualche gruppo familiare si staccasse volontariamente dalla tribù d’origine, semplicemente per rispondere ad una esigenza di autonomia o per colonizzare nuovi territori in cerca di nuove e migliori risorse. In questo caso il legame con la tribù originaria restava saldo: in caso di necessità facilmente si ritrovava collaborazione e alleanza o semplicemente di tanto in tanto i gruppi si riunivano per rinsaldare l’amicizia in virtù della comune origine.
In un modo o nell’altro, passo dopo passo, attraverso la ricerca di nuovi territori tutto il pianeta è stato esplorato e abitato.
Perché dico che quello fu l’era più felice? Perché da lì in avanti le cose cominciarono a peggiorare. Tribù sempre più popolose e sempre più fittamente distribuite iniziarono ad entrare in contrasto fra loro. I villaggi vennero fortificati a scopo di difesa prima con semplici palizzate poi con mura sempre più alte e possenti. Erano nate le città-stato. La società era al suo interno organizzata in modo completamente diverso con ruoli molto più specializzati che ne determinarono una divisione. Tanto per cominciare il potere non era più assegnato per merito ma si trasmetteva per discendenza sul presupposto della nobiltà di sangue. Poi iniziarono ad esistere le caste: religiosi, militari, artigiani, commercianti, contadini, schiavi e, cosa di non poco rilievo, furono inventati i tributi, o se preferite le odiate tasse!
Già si stava molto peggio di prima, ma ancora esisteva una certa giustizia. Coloro i quali godevano dei privilegi maggiori erano quantomeno costretti a prendersi grossi rischi, ad esempio andando a combattere, anche se a pagare le spese e le conseguenze delle guerre fin da allora erano poi le classi più povere. Le cose peggiorarono ancora: le conquiste ad opera di alcune città allargarono progressivamente i domini e così col tempo si formarono i regni e poi gli imperi e ora siamo giunti ai blocchi continentali in vista di un futuro drammatico epilogo, la totale globalizzazione!
Col dilatarsi di queste aree di controllo degli interessi sempre più si è ampliata la forbice fra chi detiene il potere aggrappandosi ai propri privilegi e chi ne subisce le scelte pagandone le conseguenze. Tutti corriamo come pazzi affannandoci a soddisfare bisogni indotti che nulla hanno a che fare con la nostra originaria natura, perdendo di vista i veri valori della vita e il senso stesso del nostro breve passaggio sulla terra. Tristi preoccupazioni su cui troppo raramente ci soffermiamo a riflettere e che neppure sfiorano la mente dei cosiddetti “potenti”.
Già, i potenti. Allo stato attuale delle cose la globalizzazione ha portato a selezionare una casta di persone che detengono un potere così spaventosamente grande da poter condizionare con le loro decisioni la vita di tutti gli abitanti del pianeta Decisioni non certo ponderate con la saggezza e l’altruismo che illuminava la mente degli antichi capo-villaggio, ma distorte da cinismo e ambizione perché solo una mente intrisa di smisurato arrivismo può portare a scalare vette di potere così elevate. Ma l’intervento di “grandi” uomini capaci di modificare nel bene o nel male la storia del mondo oppure quella del sereno abitante di un villaggio primordiale, sostanzialmente in cosa differiscono? In nulla!
Due scintille di energia che hanno opportunità di brillare per un attimo infinitamente breve nell’eternità del tempo e dispersi in un universo così infinito da sfuggire alla nostra capacità di comprensione, da far sembrare il nostro pianeta un granello di polvere.
Una cosa è certa, la vita all’apparenza insignificante del tranquillo uomo primitivo era serena, armoniosa, in sintonia con la natura e quindi, usando una frase che ci suona familiare, in armonia con l’energia dell’universo.
A questo punto il semplice teorema esposto dimostra alcune cose: primo, aprire un dojo di aikido presso un villaggio paleolitico sarebbe stato decisamente fallimentare; secondo, praticare aikido tentando di riequilibrare in qualche modo la nostra confusa esistenza è invece cosa molto opportuna.
In virtù di queste convinzioni ho sempre concepito il dojo, come una piccola tribù. Raccogliendoci sotto l’immagine di o sensei come sotto un totem abbiamo modo di realizzare una magica regressione, un enorme balzo all’indietro, ritrovandoci a rispettare le poche semplici leggi che servono per regolare la pacifica convivenza.
Ero partito con l’intenzione di descrivere magari in modo simpatico proprio questo, l’affinità che esiste fra il concetto di dojo e la realtà di una tribù, ma ora rileggendomi mi accorgo che il delirio filosofico in cui questa volta sono precipitato è troppo profondo per venirne fuori.
Divertitevi voi a trovare similitudini e affinità fra il dojo e la tribù, qualche suggerimento l’ho già dato. Ciò che conta è mettere a fuoco un concetto fondamentale: all’interno del dojo come nell’antico villaggio, ogni singolo deve trovare il proprio spazio, avere modo di realizzarsi ricoprendo un proprio ruolo, all’insegna del reciproco rispetto. Personalismi, ambizioni, spirito di competizione nei confronti dei compagni di percorso sono dannosi, stridono aspramente con lo spirito del dojo, con l’interesse della tribù di cui un valido capo, con grande umiltà e saggezza, ha il dovere di farsi garante.
Ugo Montevecchi
Dojo Aikidomus di Rimini
www.aikidomus.it