Alcuni anni orsono l’Associazione Italiana per la Spada Giapponese ha organizzato un seminario sul nihontô, seguito il giorno seguente da una visita guidata al Museo Stibbert, due eventi importanti quanto interessanti. Una armatura posta nella sezione giapponese di questo magnifico e impressionante museo di Firenze, per la verità seminascosta all’interno di una vetrina secondaria, ha colpito l’occhio dell’osservatore. Il possessore di questa armatura non era certamente di esile corporatura, e sembra non essere stato minimamente interessato a nasconderlo. Si direbbe anzi che abbia deliberatamente voluto esibire questa sua caratteristica fisica. D’altra parte un noto detto, non sappiamo quanto vero o quanto apocrifo, e che esprime un concetto sicuramente non del tutto ignoto anche nella cultura popolare italiana, recita così: grande pancia, grande samurai.
Ci troviamo di fronte al corredo di un personaggio importante; va sottolineato infatti che il possesso di una armatura, una armatura per giunta di livello museale e platealmente concepita per essere agevolmente identificata tra mille altre nel furore di una battaglia, doveva necessariamente accompagnarsi ad un alto lignaggio.
Ma va da se che l’ignoto gentiluomo è stato goliardicamente soprannominato O’ Hara, per una istintiva associazione con un altro uomo d’armi di levatura più modesta: l’omonimo sergente della serie televisiva di altri tempi Rin Tin Tin. Ma non cercate la ragione più profonda di questo appellativo nelle verdi vallate d’Irlanda, come potrebbe sembrare opportuno giudicando ad orecchio. Tradotto più o meno filologicamente dal giapponese il nome significherebbe infatti Grande (O) ventre (hara).
Forse per influenza del tono disinvolto e un po’ canzonatorio di questo approccio alcuni osservatori dell’immagine hanno disapprovato la pinguedine dello sconosciuto hatamoto richiamando un detto popolare: “Chi ha un grande stomaco ha un piccolo cervello“.
E qui forse il discorso si fa più serio. Ma non serioso
Prima di tutto occorre dire che in Occidente si è purtroppo spesso dimenticato, anche per effetto della civilizzazione che per secoli ha incoraggiato sempre più ad un uso distratto e distorto del proprio corpo, il senso della misura.
Si è troppo spesso trascurata la funzionalità per rincorrere dei canoni meramente estetici.
Peraltro passeggeri e di gusto non sempre ineccepibile oltre che non completamente volti alla razionalità, e che oggigiorno popolano le nostre strade dei cosidetti palestrati. Senza voler dimenticare naturalmente le gentili palestrate.
Non mancano certamente nella nostra cultura magnifiche rappresentazioni del corpo umano, e particolarmente di grandi guerrieri e splendidi atleti nel fiore della giovinezza.
Ma gli antichi, più vicini alla natura e alle sue semplici anche se apparentemente impenetrabili leggi, sapevano riservare il dovuto rispetto ad ogni stagione dell’uomo.
Era infatti – ad esempio – molto popolare nell’antichità classica la raffigurazione di Ercole in età matura, appesantito nel corpo dagli anni ma affinato dall’esperienza nella mente e nello spirito. Finalmente saggio e simbolo di saggezza.
Dopo aver compreso, sia pure aiutato da cause di forza maggiore, che la grandezza dell’uomo non si misura dalla grandezza o dalla possenza del suo corpo. E meno che mai dal suo gradevole aspetto fisico. Quindi, come sciogliere il dilemma tra grande samurai grande pancia ed il suo contraltare grande stomaco piccolo cervello?
Fa definitivamente pendere i piatti della bilancia verso la giusta direzione, quella che secondo noi è la giusta direzione, un altro esempio che ci viene dall’estremo oriente, e ancora una volta dal Giappone.
Si tratta della rappresentazione di una divinità, ma forse sarebbe più esatto dire di una forza non comprensibile dall’uomo, immateriale ma immanente, rappresentata ma non solo per comodità come un essere umano. Il messaggio si indirizza infatti proprio all’essere umano, e gli rappresenta visivamente come sia possibile – anche al più umile essere vivente e non solo agli umani – attingere alla forza divina. Con la serenità con cui va affrontato il gioco della vita.
Conosciuto in Cina come Budai e con diversi altri nomi nei paesi circonvicini, questo personaggio è noto in Giappone come Hotei. E’ il dio, ma ripetiamo che si vuole probabilmente intendere questo termine non tanto in senso letterale ma piuttosto come rappresentazione di un concetto astratto eppure concreto, dell’ottimismo. E della saggezza.
Si pensa che il suo culto abbia origine dalla storia remota di un uomo – forse un monaco – realmente vissuto in Cina in tempi remoti, di nome Qieci.
Le varie raffigurazioni hanno diversi tratti in comune: vediamo invariabilmente un uomo pingue, di umore bonario e dalla risata facile quanto esplosiva. Porta sempre con se quanto gli è necessario per vivere, praticamente nulla, ed è quasi sempre circondato da una frotta di bambini che si sentono iresistibilmente da lui attratti. Vengono ricambiati con semplici doni, o con la partecipazione entusiasta di Hotei ai più semplici e modesti dei loro giochi infantili.
Hotei porta sempre con se una zucca, rigorosamente vuota. In realtà, quel vuoto rappresenta la saggezza, ed il saggio buontempone la distribuisce generosamente. Molti però non sanno riconoscerla.
Nemmeno ne avvertono la presenza, il profumo.
Paolo Bottoni
Dojo Fujimae di Pisa
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