di Paolo Narciso

Tokyo, primi giorni di questo viaggio. Come sempre resto colpito del cielo dell’ Asia, così diverso anche quando è sereno. L’altro ieri c’è stato un tifone, il più grande degli ultimi venti anni. Almeno cosi dicono. L’aria è pulita e tira ancora un vento forte. Posso sentirlo chiaramente dal 16° piano dell’hotel di fronte alla stazione Shinagawa.

La stanza è piccola e ovviamente dotata di ogni tipo di confort possibile. Anche quelli che non riusciamo ad immaginare, anche quelli di cui non sapevamo di avere bisogno.

I bagagli sono accatastati alla meno peggio, cercando di non creare confusione nell’ordine geometrico degli spazi. Man mano che emergono le innumerevoli piccole esigenze mi accorgo che i giapponesi sono abituati a pensare prima, in uno spazio mentale precedente all’ azione. Un luogo che anticipa il vissuto e in qualche modo lo prepara. Questo vale evidentemente anche per il vissuto altrui.

In questo piccolo spazio, più simile ad un camper che alla stanza di un hotel, è onnipresente lo spirito di preparazione con il quale la mente giapponese affronta la realtà. C’è in ogni oggetto una intenzione di cura, l’anticipazione della domanda, il risultato di una riflessione sul bisogno. Se questo poi sia una cura reale dell’ altro o una maniera per non sentirsi impreparati e quindi adeguati, questo mi sfugge ancora. Quello che mi sembra chiaro è come per “loro” l ‘esperienza sia inscindibile dalla relazione, dall’ altro.

Dall’altro. Non necessariamente con l’altro. E questo mi appare il punto importante da osservare. Questo spazio mentale che è tessuto di un tempo in anticipo sembra infatti esistere proprio per questo. Serve a inventare questa distinzione. L’altro è presente ma senza bisogno di essere nello stesso tempo di relazione. I giapponesi fanno prima che tu possa chiedere, se possono. Fanno prima che tu sappia ancora la domanda. Intercettano l’imbarazzo, l ‘indecisione, ogni piccolo smarrimento e li fanno propri. Agiscono prima che tutto questo diventi presente. Prima che disturbi il tessuto sottile del quale è fatta la loro idea di società.

Capisco meglio osservandoli ora, qui, perché amino le sorprese, i piccoli regali e i gesti di cortesia ma non amino affatto sentirsi sorpresi. Ancora meglio: amano sorprendersi ma non amano essere sorpresi. Provano imbarazzo e fastidio nel trovarsi proiettati in uno spazio al quale non si sono potuti preparare. Lo percepiscono minacciosamente imprevedibile. L’invasione del Caos è giunta alle porte del Castello e, quando accade, non resta altro che trincerarsi dietro le alte mura di una formalità che salvi almeno le apparenze. Il protocollo, l’etichetta.

Apparire ed appartenere sono intimi in Giappone. mi sono fatto l’ idea che i giapponesi ci immaginino altrettanto in imbarazzo quando li sorprendiamo con i nostri comportamenti istintivi e poco prevedibili. Tornare ad una formalità e ad una cortesia apparente è Il loro modo di salvare anche noi, di darci l’occasione di fermarci prima che sia troppo tardi. Dato che è già troppo tardi.
Lo spazio dell’anticipazione quando agiamo al di fuori del prevedibile e del previsto è già compromesso a sufficienza. Il presente è già pericoloso. Il futuro è un concetto assente, almeno in queste condizioni.

Lo spazio di relazione va ricostruito assolutamente. In gioco c ‘è più della salvezza della relazione io – tu. c ‘è il noi. E per noi, credo, i giapponesi intendano tutti noi. L’umanità intera.

Kata, forma, è onnipresente insieme a questo spirito di anticipazione in cui tutti i mondo possibili vengono previsti. Questi mondi, nella relazione, si manifestano nei bisogni e nelle interazioni. La mente giapponese esiste prima, il presente è solo la manifestazione di un corretto pensare che precede gli eventi. Ecco che il futuro può finalmente accadere. In tutto questo c’è una bellezza che travalica il semplice concetto di prevedibilità ed efficienza, una bellezza che posso scorgere, da occidentale, solo se rinuncio a mettere al centro del mondo le mie categorie culturali. E questa è una meravigliosa occasione che mi fa sentire un senso più ampio e apre nuove dimensioni dell’essere nel mondo.

 

Paolo Narciso
Dojō Shochibukai Roma