Per uno statuto filosofico universale dell’Aikido

di Angelo Armano

Dioniso. II secolo d.C. Museo di Palazzo Massimo, Roma

Oggi un po’ tutti sanno dell’esistenza di questa moderna disciplina marziale, e la sua diffusione rende ampia testimonianza del fascino che essa provoca. La sua estetica, la sua grazia, e l’allusione ad una misteriosa efficacia, ne rendono appetibile la pratica anche in epoche di crisi come questa, e di limitate risorse da dedicare a bisogni non materialmente primari. Alcuni percepiscono tra le righe, o più o meno inconsciamente, che la stessa si può porgere come alternativa e/o complementare, ad altre e pur consolidate strade di pratica psicofisica, o più prettamente spirituale come lo Yoga, giusto per fare un esempio. Altri ripongono speranze ancora sulla deriva della New Age, nonostante quasi nessuno parli più di Era dell’Acquario

I rapporti tra la marzialità e lo spirito sono ampiamente consolidati, come sottolinea Chogyam Trungpa, quando arriva a sostenere in un suo noto saggio sull’argomento (Shambala. La via sacra del guerriero. Ubaldini) che il mestiere di prete al bramino lo insegnò il marzialista. Le conferme che ci vengono sul nesso marzialità/spirito dal Giappone, dalla Cina e dallo Yoga induista riguardo alla casta degli kshatriya, sono di portata immane.

In che modo e con quali forme tutto ciò possa avvenire è argomento di non poco conto; il rischio è di imboccare una tangente, che pur lasciandoci presagire il contenuto, rimane impedita di pervenire al centro della cosa. Come lo stesso Trungpa ammoniva in un altro saggio, l’equivoco si annida nel “materialismo spirituale”, ovvero come le nostre categorie positivistico-scientifiche – oltre che le nostre più consolidate, inconsce tendenze emotive – nel mentre si interrogano e si porgono alla contemplazione della realtà immateriale, ne sono decisamente ostacolate dalla loro stessa ontologia.

Nel campo della scienza è la meccanica quantistica, con i suoi paradossi e il suo linguaggio disorientante, ad aprire la mente verso un modo di procedere che partendo da certe premesse… le perda per strada nello scopo di rapportarsi ad un quid antitetico. Il pensiero filosofico puro chiama aporie situazioni di tal fatta, e rispetto all’uso del vocabolo, non possiamo non constatare una pregiudiziale di natura emotiva, interna a noi stessi: la parola evoca cose da evitare in quanto inghippi, nodi insolubili o quantomeno da tagliare, alla maniera di Alessandro magno.

Chi non risolve l’enigma è ingannato: il sapiente è colui che non si lascia ingannare. L’azione dell’enigma è di ingannare e di uccidere mediante l’inganno: su ciò ci ammaestra Eraclito. In fondo il sapiente è un guerriero che sa difendersi.” (Giorgio Colli, La sapienza greca)

Pugile, IV secolo a.C., scuola di Lisippo. Museo di Palazzo Massimo, Roma

E Platone era anche un pugile… La storia però non ci ha fornito risposta se con quel gesto il macedone abbia risolto o meno il problema; anzi la mancata risposta, è indice proprio della permanenza dello stesso. Il nemico è l’inganno che sfrutta la nostra collusione, il nostro fattore interno, l’unico su cui potremmo fare qualcosa.

Qualche cultore dell’induismo che si sia avvicinato alle moderne teorie della fisica delle microparticelle, ha constatato con soddisfazione che quantomeno sul piano dei principi – e senza disporre del CERN di Ginevra, oltre che delle preziose riflessioni di un certo Einstein -, in particolare senza essere previamente passati per la bomba atomica, quei contenuti erano già riconosciuti prima di Cristo e persino di Socrate e Platone (v. in particolare Orfismo e Misteri Eleusini, come ben allude Giorgio Colli).

C’era soprattutto un modo di rapportarli all’umano, tutt’altro che sprovvisto di razionalità (visto che le origini della matematica, ancor prima degli arabi, vanno all’induismo ricondotte), ma capace di farli digerire, anche se ad un mondo ancora ristretto. La ragione esisteva senza essere diventata la Dea Ragione, madre del positivismo scientifico, e dell’alternatività assoluta tra razionale e irrazionale.

Al contrario, proprio quell’espressione enfatica nel bel mezzo dell’Illuminismo – rebound inconscio di un arrocco unilaterale nella ragione – era eloquente di un bisogno di coniunctio tra gli opposti, di realizzare un punto di vista capace di porre, senza op-porre.

La logica disgiuntiva soggetto-oggetto, quella posta a base di un generico quanto esclusivizzante principio di razionalità, si trova a venir ridimensionata proprio dalla meccanica quantistica e (tra gli altri) dal concetto di entanglement, ovvero e al contrario di quella contaminazione soggetto e oggetto, uniti in un nesso di dipendenza reciproca, come pure il principio di indeterminazione di Heisenberg aveva cominciato a declinare.

Come mai solo dal secolo scorso, bisognerebbe chiedersi, quando nel cuore dell’occidente e nel momento della dominanza del pensiero cartesiano, tra il 600 e il 700, il tre volte caro – perché conterraneo, perché giurista, perché filosofo – Giambattista Vico aveva messo a punto un nuovo metodo epistemologico, oggi denominato sulla scia di Dilthey della “comprensione” …un conoscere non analizzabile se non nei suoi propri termini… il tipo di sapere che chi partecipa direttamente ad un’attività afferma di possedere, di contro ai meri osservatori… (James Hillman, commentando I. Berlin, Il concetto vichiano di conoscenza, Adelphi).

Il valore della congiunzione e della cor-rispondenza degli opposti, comincia solo oggi a fuoriuscire dagli ambiti alchimistici, iniziatici, religiosi, meramente filosofici o psicologici, per trovare ricetto in applicazioni assolutamente concrete pure in ambiti tecnologici, senza con questo smettere di disorientare il conscio collettivo, lo stile di (in)-coscienza generalmente diffuso.

Questa possibilità anche applicativa di congiunzione degli opposti, non si limita a porsi come opzione accademica, ma si propone come opportunità rispetto a bisogni, costellati appunto attraverso aporie, contraddizioni insanabili, crisi di modelli e valori, stallo e conflitto nei rapporti umani…

Già il relegare queste considerazioni ad un piano di scrittura, meno olisticamente integrato di un parlare qui ed ora che tenga conto di un uditorio, ancor meno di una capacità di espressione che includa il corpo, a sua volta inferiore ad una presenza non solo corporea e mentale, ma anche e nello stesso tempo spirituale, creativa ed artistica, pur comincia a darci conto dell’importanza di quella disciplina, l’Aikido, che il titolo dell’articolo pone in relazione con la coscienza dionisiaca. E nel contempo dei limiti di tutti i contesti solo mentalistici o solo verbali, come libri, articoli, tavole rotonde, video, e luoghi vari anche istituzionali, dove ci si riduce al solo leggere, parlare, o, nel migliore dei casi, a guardare ed ascoltare.

La lacerazione tra saggezza e azione pratica continua ancora a pregiudicare tutta la metafisica di ispirazione aristotelica, mentre la connotazione originaria di sophia indica che pensiero e azione sono presenti insieme in ciascun gesto della mano estetica”. (Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Piccola bibl. Adelphi)

La contaminazione e l’implicazione di più livelli contemporaneamente, si palesa come momento necessario di coscienza e azione, per il tasso di complicazione tecnologica, sociale e istituzionale della nostra vita. Secondo l’assunto di Umberto Galimberti (Psiche e techné, Feltrinelli) è la tecnologia, che da oggetto è divenuta soggetto nei riguardi dell’uomo, reificato a sua volta dal suo stesso prodotto.

Senza una coscienza della complessività del fenomeno sociale, senza una capacità di seguire e metabolizzare il processo di coincidenza degli opposti, ben oltre il mero livello teoretico di riflessione, si va incontro ad una follia conflittuale da incomunicabilità collettiva (nella politica interna e altresì nelle relazioni internazionali), non più contenibile da una mera deterrenza a base di terrore nucleare, come in qualche modo di fatto è avvenuto. La recente diffusione pandemica, con tutte le verità da scoprire su di essa, grazie al terrore che ha ispirato, ci mostra al contrario che invece di una congiunzione di opposti, possiamo ricadere in un regressivo assorbimento da parte di una sola delle posizioni.