di Paolo Bottoni
Una delle possibili chiavi di una ricerca personale nelle radici della cultura giapponese è la visita di alcuni luoghi topici. Va chiarito immediatamente che si tratta di un tentativo non sempre destinato ad andare a buon fine, perché le trasformazioni del territorio nipponico sono state radicali e a volte non rimane più nulla delle vestigia del passato né tantomeno dello spirito dei tempi passati. Ma le eccezioni, per quanto non facili da identificare, non mancano. Il tempo passato non è perduto.
Un esempio tipico è il tempio Sanjūsangendō di Kyōto. Viene visitato quotidianamente da stuoli di pellegrini e di semplici turisti, e per molteplici ragioni; innanzitutto è una delle più grandi costruzioni in legno non solo del Giappone ma del mondo intero, essendo la sala principale lunga più di 100 metri, ma soprattutto racchiude al suo interno, nelle 33 navate che gli danno il nome, 1001 raffigurazioni in legno dorato della dea Kannon, interpretazione tipicamente nipponica del Buddha della misericordia, sorvegliate da statue, di dimensioni maggiori, degli dei guardiani.
Il tutto fa da contorno a una scultura centrale di Kannon, assisa mentre le altre sono in piedi, di dimensioni ciclopiche, nell’alcova destinata alle cerimonie ufficiali.
Non è consentito in questo come in molti altri templi scattare foto, l’impressionante immagine dello stuolo di dei che si assiepano al Sanjūsangendō viene dall’opuscolo disponibile presso la libreria del tempio.
Ma altre evocative atmosfere si celano all’esterno del tempio stesso, per quanto appaia lineare, aperto allo sguardo.
Senza apparentemente nulla celare.
Sul lato occidentale dell’edificio, anche se qui si arrestano in sostanza le informazioni e solo altri scarni particolari sono disponibili, nel 1604 Miyamoto Musashi sostenne il suo secondo duello contro la scuola Yoshioka.
Qui affrontò e sconfisse, secondo alcune fonti uccidendolo, Denshishirō Yoshioka.
Esistono Innumerevoli ricostruzioni sceniche, anche sullo schermo, quasi sempre opera di fantasia in quanto non si conoscono particolari sullo svolgimento del duello.
In Duello a Ichijjoji il regista Hiroshi Inagaki ipotizza uno scontro notturno, tra il cadere del nevischio.
Musashi aveva già vinto il capo scuola Seijūrō presso il tempio di Jobon-rendaiji (quasi tutte le ricostruzioni ambientano tuttavia questo primo duello presso il dōjō degli Yoshioka).
Di fronte alla seconda sconfitta, i maggiorenti della scuola sfidarono di nuovo, pubblicamente, Musashi; tacciandolo di codardia se non avesse accettato.
La notte precedente l’ultimo duello, ed è importante saperlo ai nostri fini, Musashi si era recato al tempio Hachidai jinja. Giunto sulla soglia del tempio, aperto secondo l’uso giapponese e dove il fedele si trattiene sulla soglia senza entrare, allunga la mano sul cordone che serve a richiamare l’attenzione della divinità prima di esprimergli le proprie richieste.
Ma la mano tesa di Musashi si arresta, un pensiero fulmineo gli attraversa la mente: non è bene confidare nei momenti cruciali in aiuti esterni: il guerriero deve affrontare da solo il suo destino. E deve allinearsi al principio di rispettare il divino, ma senza chiederne il supporto.
La sfida era nominalmente portata dal nuovo erede della scuola Matashichiro, che aveva però solamente 13 anni. L’intenzione degli Yoshioka era invece di affrontare Musashi in gruppo, si pensa che fossero oltre 70 e oltretutto armati anche di archi e moschetti, per eliminarlo senza testimoni, lavando l’onta in qualsiasi modo.
Al contrario delle sue abitudini, si presentava ai duelli in grave ritardo per destabilizzare gli avversari, questa volta però Musashi dal tempio, poco distante, era arrivato nottetempo nel luogo fissato per il duello, il grande albero chiamato Sagarimatsu, nella zona di Ichijōji. Qui celato, all’alba Musashi uscì fuori dal suo nascondiglio e uccise Matashichiro. Era necessario: per tutelare il suo nome. Ma non dimentichiamo che lo stesso Musashi aveva affrontato il suo primo duello a quella età.
Uccise anche molti dei suoi nemici, che lo assalivano alla rinfusa, disperdendo gli altri per uscire infine salvo dal terribile confronto.
Ancora oggi esiste un albero nato da quel Sagarimatsu, la quarta generazione. E’ noto infatti che la cultura giapponese sovente ricerca la preservazione dello spirito dei luoghi piuttosto che la sua materialità, demolendo e ricostruendo periodicamente, ma fedelmente, le strutture dei luoghi sacri. Per questo, per quanto siano molto rari i manufatti risalenti ad epoche lontane, si avverte sovente tuttavia in templi, santuari e giardini lo spirito dei tempi più remoti.