Flavia Tricoli
Shochikubai Dojo Roma

Nel dojo, noi donne aikidoka, siamo spesso apprezzate per la costanza, la serietà e la sensibilità.

Nei seminari lo spogliatoio femminile è sempre quello meno affollato, il che in qualche modo è una fortuna. Ci permette di essere una comunità nella comunità, ci conosciamo e riconosciamo negli anni e le nuove arrivate vengono immediatamente individuate e incluse nello scambio che si crea: a chi abbiamo lasciato i figli, da quanto tempo pratichiamo, scambi di opinioni sulla tecnica, fino a consigli pratici o situazioni di mutuo-aiuto.

Ed eccoci sul tatami. Ci troviamo a praticare con persone il più delle volte più alte, più pesanti e più muscolose di noi, ma la disparità fisica non giustifica il pregiudizio per cui siamo noi ad essere svantaggiate.
È vero, è inutile nasconderlo, quando incontriamo un uke particolarmente ostico, non possiamo giocarcela sul piano muscolare e quando ne incontriamo uno particolarmente accondiscendente ci vediamo sottrarre la sfida dell’apprendimento.

Penso sia questa la nostra più grande difficoltà ma anche la nostra benedizione: è necessario essere molto precise tecnicamente nella scelta degli angoli, attente a ma-ai e al timing, senza perdere ma di sensibilità e fluidità. Siamo naturalmente portate da amplificare il lavoro interno (yu=nascosto/celato) senza poter trascurare però la parte visibile (ken=visibile/riconoscibile).

Quando una donna aikidoka riesce a condensare nel suo essere le caratteristiche “in e yo” senza perdere di femminilità o sacrificare l’attitudine marziale, allora si trasforma in una vera forza della natura e una fonte di ispirazione.

Nel mio dojo mi sento continuamente spinta a superare i miei limiti senza mai sentirmi costretta a rinunciare alla mia natura femminile.

Grazie a tutte coloro che giorno dopo giorno si esercitano con serietà e coltivano la pratica con passione. Spero in futuro di avere sempre più difficoltà a trovare uno spazio comodo nello spogliatoio femminile.