Tra i vari gruppi Facebook che si occupano di aikido c’è quello dell’antico sodale Simone Chierchini (avrà fatto un salto sulla sedia vedendosi definire antico, all’epoca dei fatti e misfatti seguenti era una specie di mascotte del gruppo di praticanti del Dojo Centrale). Ultimamente ha sollevato un problema e lanciato riprendolo dal suo sito un incitamento: l’aikido può essere un utile strumento di integrazione tra uomini e donne di culture ed etnie diverse?
I presupposti ci sono: l’aikido è nativamente un sistema di integrazione, nasce come tale. Non avrebbe pertanto bisogno di essere convertito per svolgere una funzione che gli è già congeniale. Il principiante che sale per la prima volta sul tatami cosa è infatti in fin dei conti? Un diverso. Un diverso che chiede di essere integrato in una cultura e in un sistema di relazioni cui è estraneo e di cui nulla conosce se non eventualmente per sentito dire, ma che sicuramente non ha mai vissuto. I suoi compagni di pratica lo guideranno in questo percorso, avendo cura che sia veloce e piacevole. Gli insegnanti coordineranno questo lavoro di integrazione, senza mai porre e porsi alcun limite sugli obiettivi che potrà raggiungere il diverso.
Certamente sappiamo che questa è una situazione ideale che difficilmente si riesce a realizzare al 100%. Ma indubbiamente è un metodo adottato da tutti e un obiettivo cui tende ogni dojo oltre che ogni persona che pratichi o insegni aikido. Però sul tatami è in un certo senso tutto più facile, perché si segue un percorso prestabilito, sotto la guida e seguendo le istruzioni di chi è in grado di predisporre e mettere in opera un progetto finalizzato allo scopo. L’attuazione di questa filosofia, che l’aikido vorrebbe fosse filosofia di vita, è meno agevole. Sia perché nella vita di tutti i giorni difficilmente è presente costantemente una guida, sia perché le situazioni in cui sarebbe proficuo applicare l’insegnamento dell’aikido sono quasi sempre diverse da quelle che ci attendevamo, sia – soprattutto – perché dimentichiamo troppo spesso che l’aikido vuole insegnare a vivere nella pienezza delle proprie possibilità. E la vita non è solo sul tatami e nemmeno è il caso di dirlo, solo su un ring o un campo di battaglia.
Questa è la ragione per cui, fermi restando i molti lati positivi dell’aikido, e non tutti esplorati, non tutti sfruttati, le righe che seguiranno metteranno l’accento piuttosto su alcuni comportamenti che non possiamo definire del tutto negativi, tantevvero che vengono bonariamente presi in giro ma non condannati e si è ben lungi dall’indicarli al pubblico ludibrio. Ognuno di noi ha sicuramente fatto anche di peggio, e se non lo ha ancora fatto, lo farà. In guardia, il nemico è vicino. Ma è come sempre dentro di noi: non lo troverete altrove.
Affrontando il problema un po’ alla lontana, in una prospettiva storica, non sono mai mancati in passato episodi di contatti tra culture diverse, talvolta sfociati nell’integrazione, a volte nella prevalenza dell’uno o l’altro gruppo e in alcuni casi purtroppo nella sparizione dei soccombenti, naturale o “agevolata”. Al giorno d’oggi è tutto per certi versi più complicato perché non vi sono più meri rapporti binari, tra due sole culture, ma c’è il cosidetto calderone, o crogiuolo se vogliamo utilizzare termini meno culinari, ove si mescolano elementi e culture le più disparate. Questo chiaramente eleva il livello di difficoltà; un esempio pratico nel campo dell’aikido, con sole tre culture a confronto. E di cui finora non ho mai parlato.
Molti anni fa all’immancabile Dojo Centrale di Roma (*), che fu veramente un laboratorio di esperienze umane che ha dato molto a chi ha trovato l’attimo di lucidità necessario per coglierle, capitò un ragazzo magrebino. Ben presto ci si rese conto che non eseguiva il saluto formale rei all’inizio e al termine della lezione. Fui inviato da Hosokawa sensei a sondare il terreno: la sua religione gli impediva di adorare esseri umani, nella fattispecie il ritratto di o sensei che campeggiava dal lato kamiza cui si indirizzava il primo saluto. L’ovvia spiegazione fu che non si trattava di una formalità a sfondo religioso, ma di una forma di rispetto, assolutamente laico, nei confronti del fondatore della disciplina. Tantevvero che era la medesima forma di saluto che veniva utilizzata tra i praticanti stessi. Era evidente che gli avrebbe fatto piacere crederlo, ma non riusciva a compiere questo salto in quello che per lui era buio: la sia pur minima percentuale di dubbio che gli rimaneva gli impediva di eseguire quel saluto.
- fondato da Tada Hiroshi sensei nel 1967 e diretto a lungo da Hosokawa Hideki sensei il Dojo Centrale fu attivo fino al 1994 nella sede di via Eleniana, presso locali in concessione dal demanio. Trasferitosi altrove avendo il demanio richiesto la disponibilità dell’immobile rimase aperto per altri 10 anni circa. Molti insegnanti di grande spessore là formatisi ne continuano tuttavia a coltivare lo spirito e l’insegnamento.
Riferito il tutto al maestro, la sua soluzione fu veloce, oggi diremmo in tempo reale, e pragmatica: «Non ha alcuna importanza, è esentato, lui e altri che si trovassero nel medesimo stato d’animo, dall’eseguire il saluto formale».Tutto bene? No… la soluzione “Hosokawa”, seppure a denominazione di origine controllata, non era accettabile. Da chi? Dagli italiani. Gli italiani che interpretavano la cultura giapponese. Quasi tutti gli insegnanti italiani che si accorgevano del fatto andavano dal poveretto a dargli una risciacquata, incuranti dei miei ripetuti tentativi di intercessione e spiegazione: ero in fin dei conti solamente un assistente 1. kyu, loro invece le cose le sapevano, e dovevo avere frainteso clamorosamente quello che il maestro aveva deciso. E’ ovvio che tornai da lui per pregarlo di comunicare a tutti, in prima persona, come la pensava il rappresentante ufficiale della cultura giapponese.Troppo tardi: il ragazzo, superati i limiti della sua resistenza, aveva rinunciato: nessuno lo vide più al Dojo Centrale.
Di un secondo esempio si potrebbe pensare che sia arrivato a conclusione più congrua. Le culture a confronto erano anzi sono solamente due per quanto una largamente diffusa e quindi difficilmente inquadrabile; la cultura giapponese e quella, diciamo così occidentale.
Questa non favola a episodi, ha qualche succedaneo di morale? Forse… potrebbe essere qualcosa del tipo «Se vuoi integrare qualcuno in una cultura, tua o no, facci e fatti prima il santo piacere di studiartela»,