Tra i vari gruppi Facebook che si occupano di aikido c’è quello  dell’antico sodale Simone Chierchini (avrà fatto un salto sulla sedia vedendosi definire antico, all’epoca dei fatti e misfatti seguenti era una specie di mascotte del gruppo di praticanti del Dojo Centrale). Ultimamente ha sollevato un problema e lanciato riprendolo dal suo sito un incitamento: l’aikido può essere un utile strumento di integrazione tra uomini e donne di culture ed etnie diverse?

I presupposti ci sono: l’aikido è nativamente un sistema di integrazione, nasce come tale. Non avrebbe pertanto bisogno di essere convertito per svolgere una funzione che gli è già congeniale. Il principiante che sale per la prima volta sul tatami cosa è infatti in fin dei conti? Un diverso. Un diverso che chiede di essere integrato in una cultura e in un sistema di relazioni cui è estraneo e di cui nulla conosce se non eventualmente per sentito dire, ma che sicuramente non ha mai vissuto. I suoi compagni di pratica lo guideranno in questo percorso, avendo cura che sia veloce e piacevole. Gli insegnanti coordineranno questo lavoro di integrazione, senza mai porre e porsi alcun limite sugli obiettivi che potrà raggiungere il diverso.

Materiale illustrativo creato nel 1998 per il dojo Cesam di Bruxelles

Certamente sappiamo che questa è una situazione ideale che difficilmente si riesce a realizzare al 100%. Ma indubbiamente è un metodo adottato da tutti e un obiettivo cui tende ogni dojo oltre che ogni persona che pratichi o insegni aikido. Però sul tatami è in un certo senso tutto più facile, perché si segue un percorso prestabilito, sotto la guida e seguendo le istruzioni di chi è in grado di predisporre e mettere in opera un progetto finalizzato allo scopo. L’attuazione di questa filosofia, che l’aikido vorrebbe fosse filosofia di vita, è meno agevole. Sia perché nella vita di tutti i giorni difficilmente è presente costantemente una guida, sia perché le situazioni in cui sarebbe proficuo applicare l’insegnamento dell’aikido sono quasi sempre diverse da quelle che ci attendevamo, sia – soprattutto – perché dimentichiamo troppo spesso che l’aikido vuole insegnare a vivere nella pienezza delle proprie possibilità. E la vita non è solo sul tatami e nemmeno è il caso di dirlo, solo su un ring o un campo di battaglia.

Questa è la ragione per cui, fermi restando i molti lati positivi dell’aikido, e non tutti esplorati, non tutti sfruttati, le righe che seguiranno metteranno l’accento piuttosto su alcuni comportamenti che non possiamo definire del tutto negativi, tantevvero che vengono bonariamente presi in giro ma non condannati e si è ben lungi dall’indicarli al pubblico ludibrio. Ognuno di noi ha sicuramente fatto anche di peggio, e se non lo ha ancora fatto, lo farà. In guardia, il nemico è vicino. Ma è come sempre dentro di noi: non lo troverete altrove.


Affrontando il problema un po’ alla lontana, in una prospettiva storica, non sono mai mancati in passato episodi di contatti tra culture diverse, talvolta sfociati nell’integrazione, a volte nella prevalenza dell’uno o l’altro gruppo e in alcuni casi purtroppo nella sparizione dei soccombenti, naturale o “agevolata”. Al giorno d’oggi è tutto per certi versi più complicato perché non vi sono più meri rapporti binari, tra due sole culture, ma c’è il cosidetto calderone, o crogiuolo se vogliamo utilizzare termini meno culinari, ove si mescolano elementi e culture le più disparate. Questo chiaramente eleva il livello di difficoltà; un esempio pratico nel campo dell’aikido, con sole tre culture a confronto. E di cui finora non ho mai parlato.

Molti anni fa all’immancabile Dojo Centrale di Roma (*), che fu veramente un laboratorio di esperienze umane che ha dato molto a chi ha trovato l’attimo di lucidità necessario per coglierle, capitò un ragazzo magrebino. Ben presto ci si rese conto che non eseguiva il saluto formale rei all’inizio e al termine della lezione. Fui inviato da Hosokawa sensei a sondare il terreno: la sua religione gli impediva di adorare esseri umani, nella fattispecie il ritratto di o sensei che campeggiava dal lato kamiza cui si indirizzava il primo saluto. L’ovvia spiegazione fu che non si trattava di una formalità a sfondo religioso, ma di una forma di rispetto, assolutamente laico, nei confronti del fondatore della disciplina. Tantevvero che era la medesima forma di saluto che veniva utilizzata tra i praticanti stessi. Era evidente che gli avrebbe fatto piacere crederlo, ma non riusciva a compiere questo salto in quello che per lui era buio: la sia pur minima percentuale di dubbio che gli rimaneva gli impediva di eseguire quel saluto.

  • fondato da Tada Hiroshi sensei nel 1967 e diretto a lungo da Hosokawa Hideki sensei il Dojo Centrale fu attivo fino al 1994 nella sede di via Eleniana, presso locali in concessione dal demanio. Trasferitosi altrove avendo il demanio richiesto la disponibilità dell’immobile rimase aperto per altri 10 anni circa. Molti insegnanti di grande spessore là formatisi ne continuano tuttavia a coltivare lo spirito e l’insegnamento.

Zazen all’alba al Dojo Centrale. Sessione di zen soto? No: esercizi psicofisici senza alcun intendimento religioso

Riferito il tutto al maestro, la sua soluzione fu veloce, oggi diremmo in tempo reale, e pragmatica: «Non ha alcuna importanza, è esentato, lui e altri che si trovassero nel medesimo stato d’animo, dall’eseguire il saluto formale».Tutto bene? No… la soluzione “Hosokawa”, seppure a denominazione di origine controllata, non era accettabile. Da chi? Dagli italiani. Gli italiani che interpretavano la cultura giapponese. Quasi tutti gli insegnanti italiani che si accorgevano del fatto andavano dal poveretto a dargli una risciacquata, incuranti dei miei ripetuti tentativi di intercessione e spiegazione: ero in fin dei conti solamente un assistente 1. kyu, loro invece le cose le sapevano, e dovevo avere frainteso clamorosamente quello che il maestro aveva deciso. E’ ovvio che tornai da lui per pregarlo di comunicare a tutti, in prima persona, come la pensava il rappresentante ufficiale della cultura giapponese.Troppo tardi: il ragazzo, superati i limiti della sua resistenza, aveva rinunciato: nessuno lo vide più al Dojo Centrale.

Di un secondo esempio si potrebbe pensare che sia arrivato a conclusione più congrua. Le culture a confronto erano anzi sono solamente due per quanto una largamente diffusa e quindi difficilmente inquadrabile; la cultura giapponese e quella, diciamo così occidentale.

In questa immagine inedita proveniente dall’archivio del compianto maestro Brunello Esposito, è ben visibile il ritratto di o sensei che campeggiava sul lato kamiza del Dojo Centrale (sempre lui…); mancò il tempo di parlare con Brunello di questa foto, e chissà se non ne riparleremo quando ci incontreremo di nuovo. Ma parla da sola.
 
E’ il 1969: lo indicano i nastri visibili sul ritratto del fondatore alle spalle di Tada sensei. Evidentemente la sua scomparsa, nel mese di aprile, era cosa recente, e i maestri di tutto il mondo lo vollero onorare esponendo il suo ritratto. Avrebbe dovuto essere una esposizione temporanea, non c’era questa usanza in Giappone.
 
Per qualche ragione su cui è inutile riflettere ora gli occidentali interpretarono quel dovuto tributo temporaneo come un vincolo perpetuo: in ogni dojo di aikido deve essere esposta la foto del fondatore. Per qualche altra ragione su cui forse non sarebbe vano invece riflettere “i giapponesi” non chiarirono mai l’equivoco. Se non alcuni, ma molti – molti – anni dopo e solamente a pochi fidi. A cui spiegarono tra l’altro che se proprio ritratto necesse est, allora non è cortese dargli le spalle e lo shihandai, il punto ove si colloca l’insegnante per il saluto formale, andrebbe spostato di lato. E iniziarono di fatti a osservare questa formalità (per la prima volta, dopo decine di anni).
 
Inutile dire che gli ambasciatori non dovrebbero portare pene, la percentuale di successo cala vistosamente. I loro imbarazzati e imbarazzanti tentativi di cambiare le carte in tavola fallirono miseramente: pressoché ovunque si è continuato e si continuerà col sistema “tradizionale” : foto, e insegnante che eseguendo il saluto gli dà le spalle.
 
E arriviamo finalmente ai giorni nostri. Nei primi tempi del Dojo Musubi di Roma (anchesso ei fu e qualche compianto concediamocelo), non disponevamo di un locale o ripostiglio dove lasciare il materiale necessario, e il dojo aveva sede in una palestra scolastica che dovevamo lasciare assolutamente vuota dopo ogni lezione.Quindi i tatami venivano collocati prima nella sala e riposti in un magazzino dopo. Il materiale meno ingombrante in attesa di disporre di un armadio lo portavamo con noi ogni volta; e tra questo materiale itinerante vi era anche il ritratto del fondatore.
 
Prima o poi doveva succedere: l’incaricato della bisogna lo dimenticò a casa! Costernazione tra i praticanti… rinunciamo alla lezione? (naturalmente sarebbe stata sostituita col linciaggio del colpevole, tanto per non sprecare la giornata).Il sottoscritto per la verità era meno incline a prenderla sul tragico, tenendo presente quanto esposto sopra.Ma la reazione dei praticanti era talmente e drammaticamente vivace che esitavo a proporre di farne semplicemente a meno. Per fortuna la tecnologia qualche volta oltre a essere petulantemente invasiva viene in supporto. E la soluzione venne trovata e trionfalmente, unanimamente adottata.
 
Confesso però di avere avvertito una non lieve sensazione di ridicolo mentre, nella massima serietà, rivolgevamo il saluto formale a un telefono. Ma sono forse i necessari passaggi preliminari alle integrazioni culturali. Chissà…

Questa non favola a episodi, ha qualche succedaneo di morale? Forse… potrebbe essere qualcosa del tipo «Se vuoi integrare qualcuno in una cultura, tua o no, facci e fatti prima il santo piacere di studiartela»,

L’articolo è finito. Andate in pace.
 
 
Paolo Bottoni
Dojo Fujimae di Pisa
www.aikidopisa.it